La "verosimile esistenza" di scriminanti comporta il divieto di fermo o arresto

La recente pronuncia della Cassazione (Cass. Sez. III penale, sentenza 20 febbraio 2020 n. 6626) ha chiarito un dubbio interpretativo concernente l’applicazione pratica dell’art. 385 c.p.p., il quale prevede, tenuto conto delle circostanze di fatto, il divieto di fermo o arresto quando appaia che siano stati compiuti nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima o in presenza di una causa di non punibilità.

Ebbene, la Suprema Corte interpreta il verbo apparire ivi menzionato, non come “appare evidente”, ma nel senso di “verosimilmente esistente”, ampliando, quindi, di gran lunga il raggio di copertura di tale disposizione.

Per giungere a questa lettura, il Supremo Consesso ha operato un paragone con quanto previsto dall’art. 273 c.p.p., per il quale viene imposto al giudice per le indagini preliminari, dominus nell’emissione delle ordinanze cautelari, di valutare se risulti che il fatto sia stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione.

Quest’ultimo accertamento non richiede, però, che la ricorrenza dell'esimente sia stata positivamente comprovata in termini di certezza, bensì si ritiene sufficiente la sussistenza di un elevato grado di probabilità che il fatto sia stato compiuto in presenza di tale causa di giustificazione.

Naturale corollario, secondo quanto espresso dalla Corte di legittimità nella sentenza 20 febbraio 2020 n. 6626, è quindi che, se il giudice, nell'adottare una misura privativa della libertà personale, deve valutare la questione dell’eventuale ricorrenza della causa di giustificazione nei termini di probabilità indicati, allora non potrebbe certo ritenersi che la polizia giudiziaria, nell'effettuare un arresto in flagranza, potesse disporre di più ampi poteri rispetto a quelli riconosciuti all'autorità giudiziaria, competente in via generale ad operare restrizioni alla libertà personale.

A partire dal 2020 sarà, dunque, operativa la tanto discussa riforma della prescrizione penale. Il nodo principale – che ha comportato il più acceso dibattito sul punto – ricade sull’interruzione dei termini di prescrizione subito dopo l’intervento della sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione.

Le correnti sul punto sono opposte: chi è a favore della riforma (ormai legge), la intende come l’unico metodo per impedire la prescrizione dei reati dovuta ai tempi eccessivi del sistema giudiziario italiano; i rimanenti, invece, investono la prescrizione del ruolo di “garanzia”, incarnando l’unico modo in cui l’ordinamento può difendere gli imputati dalla lunghezza dei processi e delle indagini.

La prescrizione esiste tanto nel ramo penale del diritto, quanto in quello civile (rispettivamente definita dall’art. 157 e ss. del codice penale e 2934 e ss. del codice civile) e riguarda l’indissolubile connessione tra l’oggetto del diritto e il trascorrere del tempo, rispondendo al principio di economia dei sistemi giudiziari: nel civile coincide con l’estinzione di un diritto qualora il titolare non lo eserciti entro un termine prefissato dalla legge; nel penale, è ancora l’estinzione, questa volta di un reato, allo spirare di un determinato periodo. Nel primo caso, la ratio è di garantire certezza nei rapporti giuridici; nel secondo, assicurare all’imputato un giusto processo in tempi ragionevoli.

Nonostante, quindi, la prescrizione penale sia uno strumento a garanzia del giusto processo, le eccessive lungaggini della giustizia italiana fanno sì che molto spesso diventi una via di fuga per imputati che vengono così assolti, seppure non con formula piena.

Con l’emendamento grillino, l’istituto della prescrizione viene sensibilmente modificato: l’interruzione dei termini della prescrizione dopo la sentenza di prima grado, secondo il M5S, dovrebbe garantire la certezza della pena e la velocizzazione della macchina giudiziaria. Di segno opposto, invece, chi la ritiene dannosa e incostituzionale, ritenendo che non sia la soluzione alla lunghezza (spesso eccessiva) delle indagini, e temendo che, eliminando la scure della prescrizione imminente, si rischi, nei fatti, di rendere eterni i gradi di giudizio successivi al primo.

Ai posteri l’ardua sentenza.

Accesso abusivo ad un sistema informatico

Brevi cenni sull’accesso abusivo ad un sistema informatico 

La legge n. 547 del 1993, di fatto, non esplicita la definizione di sistema informatico, dandola per presupposta sulla base di quanto sancito dalla Suprema Corte, secondo cui <<l’espressione “sistema informatico” cont[iene] in sé il concetto di una pluralità di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso l’utilizzazione (anche in parte) di tecnologie informatiche. Queste ultime sono caratterizzate dalla registrazione (o memorizzazione), per mezzo di impulsi elettronici, su supporti adeguati, di “dati”, cioè di rappresentazioni elementari di un fatto, effettuata attraverso simboli (bit) numerici (“codice”) in combinazioni diverse>>. 

È d’uopo sottolineare che la Cassazione, in merito all’art. 4 della L. 547/1993 con cui è stata istituita la fattispecie in parola, ha stabilito che <<il legislatore ha dettato un sistema completo di norme in tema di criminalità informatica, considerando i sistemi informatici e telematici alla stregua del domicilio>>. 

L’art. 615ter c.p. prevede due distinte condotte che consistono, rispettivamente, nell’accesso e nel mantenimento all’interno di un sistema informatico. 

La prima si verifica nell’ipotesi in cui un soggetto si introduca in una tale struttura, protetta da misure di sicurezza. 

La seconda si concretizza nel momento in cui un soggetto autorizzato ad accedere a detto sistema, vi si trattenga successivamente al periodo temporale necessario a giustificare la presenza nello stesso e per il quale aveva ricevuto l’autorizzazione. In entrambi i casi si può parlare di reato di azione. 

Si tratta, adesso, di stabilire quale sia il bene giuridico protetto dall’art. 615ter c.p. e, precisamente, se debba farsi riferimento al concetto di domicilio informatico oppure a quello di riservatezza informatica: il primo è stato sviluppato prendendo a prestito quella di domicilio comune, così come esplicitato dalla Costituzione, mentre il secondo lo si desume attraverso la normativa che disciplina il trattamento dei dati personali. Valutate entrambe le discipline offerte, a parere di chi scrive, appare, in prima battuta, preferibile l’adozione del secondo, che certamente offre una più compiuta forma di tutela. 

Conclusioni 

Per dirimere, quindi, l’ormai risalente contrasto tra le due teorie contrapposte in merito a quale sia il luogo del commesso reato – l’una basata sul concetto classico di fisicità del luogo ove è collocato il server e l’altra sul funzionamento delocalizzato, all’interno della rete, di più sistemi informatici e telematici – interviene la più recente pronuncia della Suprema Corte (Cass., Sez. Un., 24 aprile 2015, n. 17325), la quale privilegia <<le modalità di funzionamento dei sistemi informatici e telematici rispetto al luogo in cui è fisicamente collocato il server>>. 

Come argomenta la Suprema Corte, <<in ambito informatico, deve, quindi, attribuirsi rilevanza al luogo da cui parte il dialogo elettronico tra sistemi interconnessi e dove le informazioni vengono trattate dall’utente>> e, poiché nel c.d. cyberspazio il flusso dei dati informatici si trova allo stesso tempo nella piena disponibilità di consultazione di un numero indefinito di utenti abilitati, non sarà corretto affermare che i dati si trovino solo nel server ma, piuttosto, che questi ultimi siano diffusi sul territorio e contestualmente consultabili in condizione di parità presso tutte le postazioni a ciò autorizzate. 

Viene, così, riperimetrata la nozione di accesso ad un sistema informatico, vista come <<l’introduzione telematica o virtuale che avviene instaurando un colloquio elettronico o circuitale con il sistema centrale e con tutti i terminali ad esso collegati>>. 

L’accesso inizierà, quindi, con l’unica condotta umana di natura materiale, consistente nella digitazione da remoto delle credenziali di riconoscimento da parte dell’utente, mentre tutti gli eventi successivi assumeranno i connotati di comportamenti comunicativi tra client e server

Le condotte da ritenersi, quindi, perseguite nel caso di specie vengono ad essere integrate nel luogo in cui l’operatore materialmente digita la password di accesso ed esegue la procedura di login, determinando, così, il superamento delle misure di sicurezza apposte dal titolare del sistema, in tal modo realizzando l’accesso alla banca-dati.

La vicenda prende le mosse da una pronuncia del Tribunale di Ivrea che applicava all’imputato la pena di mesi 4 di arresto e € 1.000,00 di ammenda, sostituita ex art. 186, comma 9bis, C.d.S. con il lavoro di pubblica utilità, oltre alla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per mesi 9.

La IV sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 48330 del 19 ottobre 2017,  analizza la censura sollevata dalla difesa in merito all’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 186, comma 9bis, C.d.S.

Partendo da un’interpretazione strettamente letterale, il Supremo Consesso sottolinea come il comma 9bis in parola affermi che <<in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il Giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato>>. Nel caso in cui, invece, si verifichi <<la violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il Giudice che procede o il Giudice dell’esecuzione, a richiesta del Pubblico Ministero o di ufficio – con le formalità di cui all’art. 666 c.p.p. -, tenuto conto dei motivi, dell’entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospensione della patente e della misura di sicurezza della confisca>>

Ebbene, se il Giudice deve disporre la revoca della pena sostitutiva nell’ipotesi di violazione degli obblighi inerenti allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, appare evidente come ciò comporti il ripristino della pena sostituita. È, quindi, logica conseguenza che, anteriormente a tale ripristino, la sanzione amministrativa in parola deve essere stata sospesa.

È chiaro, infatti, che se la sanzione accessoria avesse immediata effettività, lo scopo premiale di cui al predetto articolo vedrebbe del tutto vanificata la propria ratio.

Al termine dei lavori di pubblica utilità, infatti, il Giudice fissa una nuova udienza in cui, dopo avere accertato l’esito positivo degli stessi, adotta alcuni provvedimenti conseguenti alla natura premiale della pena sostitutiva prescelta: dichiara estinto il reato, revoca la confisca del veicolo ove precedentemente inflitta e dimezza la durata della sospensione della patente di guida. Considerando i lunghi tempi della giustizia, la Corte di Cassazione ritiene, quindi, non corretta la sospensione della patente di guida al momento dell’applicazione della pena sostitutiva, poiché, così operando, molto probabilmente, il condannato arriverebbe all’udienza ora richiamata avendo già sopportato l’intero periodo di sospensione, vedendo quindi totalmente vanificato il dimezzamento previsto dalla norma.

omicidio stradale e vittime della strada

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Pubblicato da: Dott. Alessandro Benvoluti Data: 26/01/2015
La disciplina ex art. 603 c.p.p. nella prospettiva delineata dalla Corte Edu Nota al a sentenza Cass. Pen., Sez. II, 23 luglio 2014, n. 32619 (Ud. 24 aprile 2014 – dep. 23 luglio 2014)

Sommario:

1. Sintesi del a vicenda; 2. Questione di diritto e risvolti europei; 3. Profili problematici; 4. L’art. 603 c.p.p. e il rapporto con le pronunce sovranazionali; 5. Prospettiva possibile.

Sintesi della vicenda

Con sentenza del 18 febbraio 2013, la Corte d'appello di Bari, in riforma della pronuncia resa il 13 gennaio 2009 dal locale Tribunale – che condannava i due imputati per concorso in rapina aggravata (capo A), violenza privata (capo B) e lesioni aggravate (capo C), in danno del a persona offesa, e falso ideologico in atto pubblico (capo D) –, assolveva gli imputati dai reati di cui ai capi A, B e C e dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo D perché estinto per intervenuta prescrizione.

La Corte territoriale riteneva che non vi fosse la prova della sussistenza dei reati, essendo intrinsecamente inattendibili le dichiarazioni rese dalla costituita parte civile, per discrasie evidenziate tra quanto riferito in denuncia e quanto dichiarato al pubblico ministero, nonché per contrasto con le fonti di prova estrinseche di natura orale.

In sostanza, quindi, i giudici d'appello, nella sentenza impugnata, si limitavano ad affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudicante, le dichiarazioni della parte civile, sulle quali ritenevano che si fosse fondata l'affermazione di responsabilità degli imputati, non potessero considerarsi credibili.

Gli stessi consideravano, altresì, la responsabilità degli imputati sulla scorta dell'attendibilità intrinseca della stessa parte civile così come ascoltata in dibattimento, mentre la Corte territoriale, al contrario, non la riteneva verosimile, basandosi unicamente su di una diversa lettura del e deposizioni in precedenza rese.

Questione di diritto e risvolti europei

Al fine di permettere una valutazione sull'attendibilità delle dichiarazioni, si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova.

È una regola non di carattere assoluto, in quanto, tale ascolto diretto, deve avvenire in linea di massima, poiché, generalmente, la semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione dell’attendibilità intrinseca del testimone[1].

A tale proposito, la Corte edu[2] è intervenuta in un caso in cui il giudice di primo grado non aveva ritenuto intrinsecamente attendibile il testimone principale che riferiva su tutte le circostanze fondanti l'accusa, mentre il giudice di secondo grado, senza una nuova raccolta delle prove, ma sulla sola base della lettura delle dichiarazioni rese in primo grado, ne aveva affermato la piena attendibilità.

Sulla scorta di quanto isolatamente affermato dalla pronuncia Destrehem del 2004[3], infatti, con la decisione Dan, la Corte Edu ha condannato la Moldavia per violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

Dopo avere osservato come l’intervenuta condanna in grado d’appello del ricorrente, precedentemente prosciolto, senza procedere a nuova escussione dei testimoni già esaminati in primo grado, violi il canone dell’equità processuale, il giudice sovranazionale ha chiarito che <<chi è chiamato a decidere sulla colpevolezza d’un individuo deve, in linea di principio, sentire i testimoni di persona, per valutarne la credibilità>>. Vagliare l’<<affidabilità delle fonti di prova>>, infatti, è <<compito complesso>>, che non può essere correttamente assolto attraverso la <<mera rilettura>> delle dichiarazioni verbalizzate durante il processo di primo grado[4].

A non dissimili conclusioni il giudice convenzionale è approdato pure nel recente caso Moldoveanu – cittadino rumeno prosciolto in grado d’appello e condannato avanti la Suprema Corte –, nell’ambito del quale è stata, altresì, affermata la   violazione   del par.  3 dell’art.  6 CEDU per essere stato calpestato il diritto di <<difendersi>> – rectius: <<right to legal assistance>>[5] – protetto dalla lett. c).

È il caso di rammentare come la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani abbia creato, nel corso degli anni, un patrimonio giuridico comune che costituisce un preciso <<diritto europeo delle libertà>> [6]. Si tratta, a ben vedere, di una serie di regole minime che devono essere concretamente osservate per assicurare uno <<spazio vitale di libertà>> in una <<società democratica>>.

Questa esigenza di effettività del sistema europeo di protezione dei diritti, emerge chiaramente fin dal lontano caso Irlanda c. Regno Unito, in cui la Corte europea ebbe modo di precisare come le sue sentenze servano <<non  solo  per  decidere  i  casi  portati  dinanzi  al a  Corte>>,  ma,  più  in  generale,  per <<chiarire>>, <<salvaguardare>> e <<sviluppare>> le regole poste dalla Convenzione contribuendo così all’osservanza da parte degli Stati degli impegni da loro assunti in quanto Parti contraenti[7].

Proprio perché la Convenzione europea costituisce un meccanismo unico di protezione dei diritti dell’uomo, che contribuisce in maniera determinante al mantenimento della sicurezza democratica ed al rispetto del diritto

 nell’insieme dell’Europa, è essenziale che gli Stati onorino concretamente l’impegno formale, da loro preso, di dare esecuzione alle sentenze dei giudici europei e, più in generale, di conformarsi ai principi della Convenzione stessa, così come interpretati nelle pronunce della Corte di Strasburgo[8].

Profili problematici

Già con l’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, erano state riscontrate delle stonature all’interno del sistema processuale penale con riferimento ai rapporti tra i primi due gradi di giudizio: al primo, ispirato al principio del contraddittorio quale <<strumento epistemologico meno imperfetto per il raggiungimento della verità>>[9], concretizzato nel totale rispetto dei canoni di oralità e immediatezza attraverso la formazione della prova davanti al giudice[10], si contrappone un giudizio d'appello in cui il giudice forma, di regola, il proprio convincimento attraverso la mera rilettura del materiale probatorio formato nel grado precedente[11].

Lo scarto tra gli anzidetti gradi non acquista fluidità nemmeno se si pone lo sguardo sul a dimensione etico- politica del contraddittorio[12], in quanto metodo ideale per il raggiungimento del <<giusto processo>>[13].

Il paradosso è ictu oculi evidente: è possibile giungere al ribaltamento della decisione in appello, il cui giudizio è caratterizzato da una ristretta finestra dialettico-probatoria e a dispetto di un risultato ottenuto in una fase precedente in cui tale spazio aveva trovato piena espressione[14].

A ciò conseguono, da un lato, la compressione nei riguardi dell'imputato del significato del contraddittorio come scelta di civiltà[15] e come freno al o ius puniendi del giudice[16], dall'altro un affievolimento nella collettività dell’accettazione di tale pronuncia: appare inverosimile, infatti, l’idea che una sentenza formata attraverso i crismi di garanzia del dibattimento possa essere ribaltata in secondo grado tramite una mera rilettura degli atti di prime cure[17].

È evidente, quindi, come, nel’ambito del codice di procedura penale italiano, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in grado d’appello rappresenti un istituto ancorato a logiche eccezionali, così come ampiamente affermato dal a giurisprudenza[18].

Per la Corte di Cassazione, infatti, il processo d’appello è – e resta – <<un giudizio caratterizzato dal controllo prevalentemente cartolare di quanto verificatosi in prime cure>>[19].

È possibile, peraltro, constatare come il giudice di seconde cure non sia nemmeno tenuto a motivare, in negativo, le ragioni che hanno generato il rigetto della correlativa richiesta di rinnovazione istruttoria in grado d’appello[20], rimarcando, così, la <<natura discrezionale>>[21] di tale potere[22].

L’art. 603 c.p.p. e il rapporto con le pronunce sovranazionali

A questo punto, è d’uopo valutare come la giurisprudenza di legittimità nazionale abbia risposto agli stimoli sovranazionali.

Con una pronuncia chiarificatrice[23], la Suprema Corte ritiene l’art. 603 c.p.p. assolutamente compatibile con l’art. 6 CEDU così come interpretato dal a Corte di Strasburgo.

Sullo sfondo del 'attuale disciplina nazionale in materia di attività probatoria in appello, però, si eleva la presunzione di completezza del quadro istruttorio su cui è stata fondata la sentenza di primo grado (potenzialmente irrevocabile)[24].

L’eventuale nuova ammissione, pertanto, è tarata sulla tendenziale funzione quasi esclusivamente integrativa dei mezzi istruttori richiesti, sotto il ben determinato aspetto della necessità di colmare l’ipotetica incertezza del precedente quadro probatorio.

Nel diritto vivente, quindi, la rinnovazione opera come istituto eccezionale, fondato sulla necessità di surrogare l'incertezza accidentale del compendio istruttorio offerto al giudice d'appello, che si assume ordinariamente completo[25].

Al contrario, nell'ottica convenzionale, l’istituto in parola è condizione di equità del processo ogniqualvolta il giudice d'appello finisca per stravolgere il contenuto della sentenza di primo grado, sulla base delle stesse prove dichiarative assunte nel medesimo, così certificando la decisività della rivalutazione delle prove stesse, indipendentemente dal risultato che si otterrà, sia esso una condanna oppure una pronuncia assolutoria[26].

La ratio della rinnovazione, nei termini così descritti, deve essere rinvenuta nella necessità di ristabilire una connessione diretta tra il decidente e la prova dichiarativa, indipendentemente da una situazione d’incertezza del quadro probatorio accertata ex ante; se d’incertezza si vuole parlare, questa può, in limine, presumersi certificata ex post, considerando il ribaltamento della valutazione[27].

La lontananza tra le due prospettive è evidente: l’istituto in analisi assume nell'ordinamento interno i connotati dell’eccezionalità, in quanto finalizzato a completare il quadro probatorio accidentalmente incerto; in sede convenzionale, invece, assurge a condizione ordinaria di aequitas procedurale che prescinde dall’eventuale mancanza di univocità probatoria, poiché diretta a soddisfare esclusivamente il principio di immediatezza[28].

Prospettiva possibile 

Ebbene, se è vero che la prospettiva di ribaltamento di una decisione di condanna sia caratterizzata da una rideterminazione meramente critica, potendo la pronuncia assolutoria derivare dalla mera rilettura di una prova determinante[29], è parimenti corretto affermare che la prospettazione dello scenario opposto attiri fatalmente il giudice verso una disamina integrale del fatto, certificata ogniqualvolta venga emessa una condanna all'esito del giudizio di appello[30].

Nel primo caso, è sufficiente, a fondamento di una corretta statuizione, un'attività critico-cognitiva, da intendersi come tecnica idonea a proporre ipotesi alternative rispetto a quelle prospettate a sostegno del giudizio di primo grado e limitata a un vaglio degli atti processuali[31].

Nel secondo, al contrario, la rivalutazione del compendio probatorio acquisito in primo grado è certamente idonea a fungere da indicatore dell'ingiustizia della prima decisione, ma non può, di per se stessa, essere considerata bastevole all’esaurimento del 'attività cognitiva del giudice[32].

La regola di giudizio – tarata sulla presunzione d'innocenza e sulla mancanza di ogni ragionevole dubbio ex art.

533, comma 1, c.p.p. – impone al giudice un nuovo accertamento riguardante qualunque profilo di responsabilità dell’imputato[33].

Non si vede, quindi, come l’applicazione anche al giudizio d’appello dello statuto cognitivo tipico del primo grado non appaia logica: se il fatto va ricostruito, non v’è alcun motivo ragionevole per derogare ai principi del contraddittorio-immediatezza nell’assunzione della prova[34].

De iure condendo, pertanto, si auspica un intervento legislativo chiarificatore in materia, poiché, nonostante le criticità del caso, l’interpretazione convenzionalmente conforme del ’art. 603 c.p.p. appare ad oggi possibile.

[1] Padovani, Il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del p.m. principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 4031.

[2] Corte Edu, sent. 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, http://www.duitbase.it/database-sentenze-corte-europea- diritti-umani.

[3] Corte Edu, sent. 18 maggio 2004, Destrehem c. Francia, http://www.duitbase.it/database-sentenze-corte- europea-diritti-umani.

[4] Corte Edu, sent. 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, cit..

[5] Corte Edu, sent. 19 giugno 2012, Moldoveanu c. Romania, http://www.duitbase.it/database-sentenze-corte- europea-diritti-umani.

[6] Corte Edu, sent. 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito, http://www.duitbase.it/database-sentenze-corte- europea-diritti-umani.

[7] Ancora Corte Edu, sent. 18 gennaio 1978, cit..

[8] Così LONATI, Il contraddittorio nella formazione della prova orale e i principi della C.E.D.U.: una proposta de jure condendo, in http://www.penalecontemporaneo.it/gliautori/108-simone_lonati/.

[9] GIOSTRA, Contraddittorio (principio del). II) Diritto Processuale Penale, in Enc. giur., vol. IX, Roma, Treccani, agg. 2001.

[10] L'assunzione in contraddittorio della prova nel pieno rispetto dell'oralità e dell'immediatezza rappresenta, come rilevato in dottrina, <> di attuazione del contraddittorio. V., per tutti, ILLUMINATI, voce Accusatorio ed inquisitorio (sistema), in Enc. giur., vol. I, Roma, 1988, 7; sul binomio oralità-immediatezza, v. FERRUA, Oralità del giudizio e letture di deposizioni testimoniali, Milano, 1981, 282 ss..

[11] V., in particolare, FASSONE, L'appello: un'ambiguità da sciogliere, in Quest. Giust., 1991, 623 ss.; NAPPI, Il nuovo processo penale: un'ipotesi di aggiornamento del giudizio di primo grado, in Cass. pen., 1990, 974. V., in questo senso, SPANGHER, voce Appello, II) diritto processuale penale, in Enc giur., II, Agg., 1991, 1; cfr., anche, CHIAVARIO, Nel nuovo regime delle impugnazioni i limiti e i mancati equilibri di una riforma, in AA.VV., (a cura di CHIAVARIO), Commento al nuovo codice di procedura penale, VI, Torino, 1991, 15 ss..

[12] Sottolinea la doppia anima del contraddittorio, al contempo scelta gnoseologica e etico politica, CORDERO, Ideologie del processo penale, Milano, 1966, 218, ss.; per un’efficace ricostruzione delle radici etico-politiche del contraddittorio v. RAFARACI, La prova contraria, Torino, 2004, 8 e ss..

[13] da intendersi come valore in sé, non meno importante di una <<giusta  decisione>>,  DOMINIONI, L'imputato tra protagonismo dell'accusa e subalternità della difesa, in Arch. pen., 1982, 79.

[14] Nello stesso senso GAITO, GIARDA, LATTANZI nel convegno I nuovi orizzonti della giustizia penale europea, Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale <<G.D.  Pisapia>>, Milano, 24-26 ottobre 2014.

[15] GIOSTRA, Valori ideali e prospettive metodologiche del contraddittorio in sede penale, in Pol. Dir., 1986, 17; ID., voce Contraddittorio (principio del), in Enc. Giur., 1988, 5; l'Autore, nell'enucleare la dimensione del contraddittorio come scelta di civiltà giuridica, osserva: <<verificare l'ipotesi accusatoria in contraddittorio con l'imputato significa ravvisare nella dignità del singolo un bene non meno  prezioso dell'accertamento  dei fatti e  delle  responsabilità>>, in TESORIERO, La rinnovazione della prova dichiarativa in appello, in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/3246- la_rinnovazione_della_prova_dichiarativa_in_appello_alla_luce_della_cedu/; GENTILI, Il diritto come discorso, Milano, 2013, 537 <>.

[16] Sul valore politico del contraddittorio come limite al potere decisorio del giudice, v. ORLANDI, Trasformazione dello Stato e crisi della giustizia penale, in Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino, 2008, 248-249.

[17] Nella disciplina positiva di molti sistemi processuali sono riscontrabili nessi tendenziali tra conformazione del primo e del secondo grado di giudizio. Tali tendenze vanno apprezzate, tuttavia, sul mero versante delle scelte di politica legislativa, sono condizionate da ragioni di carattere storico-culturale e sfuggono ad ogni automatismo logico-giuridico; in questo senso, appare non condivisibile ogni ricostruzione volta a far derivare dall'adozione dei canoni del contraddittorio vuoi un giudizio d'appello necessariamente e integralmente improntato al medesimo canone epistemologico vuoi, in senso opposto, l'automatica inutilità (e quindi l'abolizione) del secondo grado di giudizio. Ancora TESORIERO, La rinnovazione, cit..

[18] Cass. pen., Sez. Un., 24.1.1996, Panigoni, in Cass. pen., 1996, 2892.

[19] Cass. pen., sez. III, 5.4.2001, Santeramo, in Guida dir., 2001, n. 16, 9.

[20] Cass. pen., sez. V, 18.3.2003, Prospero, in CED Cass., 225633.

[21] Cass. pen., IV, 19.2.2004, Montanari, in CED Cass., 228353.

[22] <<L’art. 603 nuovo c.p.p., sostanzialmente riproduttivo dell’art. 520 del c.p.p. del 1930, nel confermare  la natura discrezionale dei poteri riconosciuti in materia di  rinnovazione  dell’istruzione al  giudice  del gravame  non si pone  in  contrasto con il disposto dell’art.  6 della  Convenzione  europea  dei diritti dell’uomo  e  con il dettato degli artt. 3, 24 e 111 della Carta Costituzionale, i quali  nel  riconoscere  il  diritto  dell’imputato  al “processo  giusto”  non  sottraggono,  però, al giudice  il  potere-dovere  di valutare  preventivamente  l’ammissibilità  e la conferenza ai fini del giudizio  delle  prove  indicate  o  richieste  dall’imputato>> (Cass., Sez.  II, 18  maggio  1991, rv. 187162), in VALENTINI, I poteri del giudice  dibattimentale  nell’ammissione  della  prova, Padova,  2004, 16, nota  n. 46.

[23] Cass., Sez. II, 8 novembre 2012, n. 254726, in CED Cass., n. 254726; Sez. IV, 6 dicembre 2012, n. 4100, in CED Cass., n. 254950.

[24] TESORIERO, La rinnovazione, cit..

[25] Cfr., PERONI, L'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, Padova, 1995, 200; in giurisprudenza, fra le tante, v., Sez. I. 27 maggio 1991, n. 7329, in Arch. nuova proc. pen., 1992, 109; recentemente, v. Sez. II, 27 settembre 2013, n. 41808, in CED Cass., n. 256968.

[26] Questo per spingere nella direzione che si sta timidamente tratteggiando nella prassi, per cui la disciplina ex art. 603 c.p.p. dovrebbe essere applicata in entrambi i casi di ribaltamento in appello. Si segnala a tale proposito il seminario di studio organizzato da Magistratura Democratica (Sasso Marconi, 12-13 dicembre 2003), i cui atti sono raccolti in AA.VV. (a cura di NUNZIATA), Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo, in Diritto e giustizia, 2004, suppl. al fasc. 29; per una recente ricognizione delle problematiche in esame e delle varie posizioni maturate in dottrina, v. BELLUTA, Prospettive di riforma dell'appello penale, tra modifiche strutturali e microchirurgia normativa, in Riv. dir. proc., 2010, 1059 ss., ora anche in BARGIS - BELLUTA, Impugnazioni penali: assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Torino, 2013, 235 ss..

[27] PERONI, L'istruzione, cit., 216.

[28] FASSONE, L’appello, cit., 248; TESORIERO, La rinnovazione, cit..

[29] PERONI, L’istruzione, cit., 237.

[30] NAPPI, Adeguamenti necessari per il sistema delle impugnazioni, AA.VV. (a cura di NUNZIATA), Principio accusatorio, impugnazioni, ragionevole durata del processo, in Diritto e Giustizia, 2004, 151 ss., il quale rileva: <<mentre per giustificare la trasformazione di una condanna in assoluzione basta inficiare anche  una soltanto delle prove che sorreggono la costruzione dell'accusa, invece per poter trasformare una sentenza di assoluzione in una sentenza di condanna occorre che si ricostruisca ex novo l'impianto accusatorio. E quindi la trasformazione di una condanna in assoluzione può conseguire anche al mero controllo  della  correttezza  della decisione impugnata, mentre  la  trasformazione  di  una  assoluzione  in  condanna  richiede  un  nuovo  accertamento del fatto>>.

[31] CHIAVARIO, Nel nuovo regime, cit., 116.

[32] Con riguardo al valore argomentativo della prova: SIRACUSANO, Ragionevole durata del processo e giudizi di impugnazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 18 ss..

[33] CHINNICI, L’«oltre ogni ragionevole dubbio: nuovo criterio del giudizio di condanna, in Dir. pen. proc., 2006, 1553; CONTI, Al di là del ragionevole dubbio, in AA. VV., Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio. Legge 20 febbraio 2006, n. 46 “legge Pecorella”, a cura di Scalfati, Milano, 2006, 87; FERRUA, La colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in AA. VV., Il nuovo regime delle impugnazioni tra Corte costituzionali e Sezioni Unite, a cura di Filippi, Padova, 2007, 137; GAROFOLI, I nuovi standards valutativi e gli epiloghi decisori nel giudizio, in AA. VV., La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di Gaito, Torino 2006, 77; KOSTORIS, Le modifiche al codice di procedura penale in tema di appello e di ricorso per cassazione introdotte dalla c.d. «legge Pecorella», in Riv. dir. proc., 2006, 633; IACOVIELLO, Lo standard probatorio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, in Cass. pen., 2006, 3869; MARZADURI, Commento all’art. 5 l. n. 46/2006, in Leg. pen., 2007, 88; PALIERO, Il «ragionevole dubbio» diventa criterio, in Guida dir., n. 10, 2006, 73; dello stesso autore, Nasce la necessità di un’esegesi comune, ivi, 82; PIERGALLINI, La regola dell’“oltre ragionevole dubbio” al banco di prova di un ordinamento di civil law, in AA. VV., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006. Dai problemi di fondo ai primi responsi costituzionali, a cura di Bargis-Caprioli, Torino, 2007, 361; PISANI, Riflessioni sul tema del “ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1243; SPANGHER, Tra resistenze applicative ed istanze restauratrici, in AA. VV., La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di Gaito, Torino, 2006, 250.

[34] CHINNICI, Verso il “giusto processo” d'appello: se non ora quando? Dalla irriducibile staticità nello ius positum italiano al dinamismo cognitivo nel “diritto vivente” europeo, in Arch. Pen., 2012, III, p. 921; e più diffusamente, dello stesso autore, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, Torino, 2008.